Afghanistan: tra aiuti umanitari e riconoscimento internazionale
DI ANGELO ARNONE
14/02/2022
Correva l’anno 1979 quando l’URSS di Brežnev mise in atto quella che si sarebbe rivelata un’ingloriosa invasione dell’Afghanistan. Da quel momento il popolo afghano non avrebbe più conosciuto la pace e le spaccature interne della società, sommate ai forti interessi di attori esterni, avrebbero condotto la nazione verso un inesorabile collasso. Con l’arrivo al potere dei talebani e il definitivo ritiro degli americani dello scorso agosto, i 42 anni di scontri sembravano essere giunti al termine, sancendo peraltro un grave smacco alle potenze occidentali. Quello che si è aperto, però, è solo un altro capitolo di una storia senza fine. I talebani cercano adesso di gestire un paese allo stremo dialogando con una comunità internazionale che, divisa da prospettive e interessi contrastanti, appare incapace e indecisa su come reagire.
Con un sistema sanitario fatiscente nel bel mezzo di una pandemia globale, diritti umani inesistenti, siccità e un’economia al collasso con un PIL che secondo le stime dell’Onu si è contratto di oltre il 40% rispetto allo scorso anno, la serietà della crisi umanitaria che sta affliggendo l’Afghanistan va oltre ogni previsione e certamente sarà una bella spina sul fianco con cui la comunità internazionale dovrà necessariamente fare i conti.
Tornati al potere dopo esattamente 20 anni, obiettivo primario dei talebani è ora quello di evitare un ennesimo capovolgimento di fronte, consolidando il proprio potere all’interno del paese. Se in passato ci pensarono gli americani a sovvertire il regime con il dispiegamento di massicce forze militari, adesso il contesto geopolitico è mutato e, come affermato anche dall’ambasciatore dell’ex repubblica islamica dell’Afghanistan in Italia, Khaled A. Zekriya, una nuova risposta armata da parte della comunità internazionale costituisce attualmente una possibilità assai remota. Questa volta, però, i problemi per i talebani sono endogeni. In una recente intervista per la DW News, il portavoce del ministero degli Esteri talebano Abdul Qahar Balkhi ha spiegato, a motivo della legittima presa di potere dell’organizzazione, come i talebani rappresentino ogni etnia del paese. Stando a quanto riferito da Zekriya, però, una prima divisione è rintracciabile all’interno dello stesso gruppo, dove una minoranza moderata si contrappone alla maggioranza radicale, senza contare poi che quest’ultima deve ancora fare i conti con il fronte nazionale di resistenza (che fa da voce al precedente governo in esilio in Tajikistan) e una serie di altri gruppi etnici che si ribellano al regime, Pashtun in primis.
In una situazione tanto drammatica, le potenze straniere non possono starsene a guardare: l’enorme quantità di materie prime del territorio che fanno gola a molti, la sua strategica posizione geografica, i milioni di sfollati che rischiano di ingrossare le file dei profughi diretti all’estero (Iran e Pakistan soprattutto), oltre che il contesto in sé fertile per l’espansione di gruppi fondamentalisti rappresentano una posta in gioco troppo alta. La situazione deve pertanto essere monitorata attentamente e ogni singola mossa soppesata nei minimi particolari.
La comunità internazionale, se da un lato ne condanna gli atti, dall’altro appare disposta a dialogare e raggiungere compromessi con i talebani, senza cui sarebbe ad oggi impossibile poter progettare un piano efficace per contenere la crisi. All’inizio di gennaio, per far fronte alla calamità, il coordinatore degli aiuti di emergenza dell’Onu Martin Griffiths ha annunciato un piano di aiuti di ben $4.4 miliardi che, sommati ai $623 milioni per il piano di aiuto ai rifugiati annunciato da Filippo Grandi, alto commissario Onu per i rifugiati, rappresenterebbero il programma di aiuti più cospicuo di sempre erogato dalle Nazioni Unite per un singolo paese. Ma l’erogazione degli aiuti, destinati a oltre 22 milioni di afghani, tarda ad arrivare per una serie di ostacoli. Tra questi, il più rilevante è quello di trovare una strategia efficace per raggiungere tutti i bisognosi in tempi ristretti e in maniera adeguata, assicurandosi che gli aiuti non finiscano nelle mani dei nemici. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.
La paura di finanziare involontariamente il gruppo terrorista spiega in parte anche la decisione varata da Washington lo scorso 23 agosto di congelare le riserve del governo afgano depositate negli Stati Uniti (secondo stime attendibili si tratterebbe di circa $9 miliardi). Se a questo aggiungiamo che il paese non può più fare affidamento ad aiuti e investimenti esteri da cui peraltro era fortemente dipendente, è facile intuire quanto sia difficile anche per gli operatori reperire contanti, complicandone così gli spostamenti.
La decisione degli USA e della comunità internazionale di non riconoscere il governo talebano ha creato un dilemma su come fornire sufficiente aiuto senza legittimare il gruppo o porre il denaro nelle sue mani. E mentre le Nazioni Unite discutono sul da farsi, la risposta talebana non si fa attendere. Il 13 gennaio il ministero delle finanze di Kabul ha fatto sapere tramite un tweet del portavoce Ahmad Wakli Haqmal di aver approvato un bilancio equivalente a 450 milioni di euro per i primi tre mesi dell’anno, sottolineando con fierezza che “per la prima volta da due decenni, abbiamo fatto un bilancio che non dipende dagli aiuti internazionali. Per noi è un grande successo”. Il budget approvato è sicuramente insufficiente e numerosi dubbi permangono circa la sua reale fruizione. Così facendo, però, il regime vuole dare mostra all’occidente, Washington in primis, della propria stabilità e capacità di assistere il proprio popolo, sperando che questa mossa possa valergli una futura (anche se al momento alquanto improbabile) legittimazione internazionale.
È evidente quindi come il tema degli aiuti umanitari sia fortemente intrecciato con quello del riconoscimento richiesto dai talebani, senza però dimenticare che nelle trattative a rivestire un ruolo fondamentale saranno i diritti umani tanto inneggiati dagli occidentali. Qualche settimana fa, in un suo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite, il segretario generale Antonio Guterres aveva dichiarato che “gli afgani necessitano di pace, speranza e aiuto e ne hanno bisogno adesso… la finestra per la costruzione della fiducia è aperta. Ma questa fiducia deve essere guadagnata”. Una dichiarazione, questa, che sicuramente ha lasciato in molti perplessi e increduli circa la possibilità di contrattare con un tale organizzazione criminale. Ma è proprio sulla falsariga delle parole di Guterres che le potenze occidentali si sono immediatamente mobilitate organizzando a Oslo dal 23 al 25 gennaio un incontro con gli esponenti del gruppo terrorista.
I dettagli sugli incontri tra il 23-25 gennaio non sono stati esplicitamente resi noti al pubblico, ma certamente americani e alleati hanno posto come obiettivo primario il tema scottante dei diritti umani, soprattutto di donne e bambine. I talebani, dal canto loro, hanno tastato il terreno per comprendere le reali possibilità e condizioni che potrebbero condurre al riconoscimento del loro governo, oltre che esigere lo scongelamento delle riserve afghane negli USA facendo leva sulle precarie condizioni in cui versa la nazione.
Al momento nessuna nazione ha ancora riconosciuto il regime, neppure la Cina che ha forti interessi economici e commerciali nella regione e il Pakistan, dove l’iniziale appoggio al regime ha presto lasciato spazio a un’ondata di preoccupazione in materia di sicurezza e rifugiati. In effetti, come ci ha ampiamente spiegato l’ambasciatore Zekriya, al momento non persistono nemmeno i criteri giuridici e amministrativi (oltre a quelli etici) perché un loro riconoscimento possa essere anche lontanamente immaginato. Di questo ne è al corrente il ministro degli Esteri norvegese Anniken Huitfeldt che ha dichiarato come il dialogo con i talebani non sia stato motivo di legittimazione o riconoscimento degli stessi. A rincarare la dose ci ha pensato il primo ministro Jonas Gahr Støre che, consapevole delle critiche ricevute in seguito all’invito della delegazione talebana a Oslo, ha replicato sostenendo che “è la prima tappa per iniziare a trattare con coloro che detengono il potere de facto in Afghanistan” e ancora “l’alternativa è abbandonare l’Afghanistan, dove metà della popolazione ha bisogno di aiuto umanitario, e rischiare la catastrofe umanitaria”. La sua dichiarazione lascia così poco spazio di interpretazione circa la strategia adottata dall’occidente.
Sebbene irta di ostacoli, la via diplomatica sembra ad oggi la sola maniera per risolvere un dilemma tanto complicato. Stabilire con certezza quale sarà il futuro della nazione e del regime al potere, appare oggi impossibile da prevedere e a pagare le spese di questo stallo politico sono i cittadini afghani ridotti alla miseria. La comunità internazionale, occidente in primis, dovrà dare prova di unione e compattezza per avere una qualche possibilità di successo. Entrambe le parti possiedono vari assi nella manica e alla fine a prevalere sarà quella che saprà giocare al meglio le proprie carte.