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Crisi del sistema ONU nel panorama geopolitico contemporaneo

di SIMONE BELLETTI

18/11/2024

La strategia internazionale delle grandi potenze minaccia una pace che appare sempre più sull’orlo del precipizio: in un mondo di scenari geopolitici incerti, succubi di un sistema di cooperazione fallimentare, l’Organizzazione delle Nazioni Unite rivela al mondo tutte le crepe presenti nel suo sistema.

L’ONU è un’organizzazione intergovernativa a carattere mondiale (193 paesi aderenti su 196 riconosciuti), volta al mantenimento della pace e alla salvaguardia della sicurezza internazionale. Relazioni amichevoli, migliori condizioni di vita e sviluppo sostenibile sono i tre pilastri alla base del sistema: malgrado ciò, validi presupposti trovano ostacolo in un sistema giudicato da molti “obsoleto” e ormai superato.


LA MORTE DEL MULTILATERALISMO

Kofi Annan, ex segretario generale dell’ONU, nel 2005 osservava la complementarità di sviluppo e sicurezza nel panorama internazionale, dove “Non c’è sviluppo senza sicurezza e non c’è sicurezza senza sviluppo”.

Il principio fondante del multilateralismo ha sempre faticato ad imporsi nel districato sistema delle Nazioni Unite: l’utopia di questo meccanismo è dovuta al difficile coordinamento di politiche comuni tra paesi con esigenze diverse, e spesso inderogabili, che faticano a rispettare i codici comportamentali per il mantenimento della pace cooperativa. La radice illusoria di questo sistema sarebbe, per gli analisti, l’impossibilità di raggiungere compromessi “universali”: il successo degli accordi di Kyoto per le emissioni di CO2 (ratificati, quasi universalmente, nel 1997), incontra il parziale fallimento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che facilita gli accordi economici e incoraggia la vera pluralità di interessi dei soli 164 paesi firmatari.

Secondo l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI), il blocco del multilateralismo è dovuto alle fratture globali di un pianeta dove la furia espansionistica sta ritornando ai massimi storici: l’ONU non può funzionare come camera di compensazione geopolitica senza la volontà dei principali attori di trovare un accordo mutualmente vantaggioso; la fragilità del sistema e l’impotenza degli organi esecutivi mantengono il mondo nel limbo di un potenziale scacco matto.

Il peacemaking ha il potere di trasformare un conflitto tramite il compromesso umanitario, che attesti relazioni di equa divisione del potere: si fa con il diritto internazionale, uno strumento di coercizione giuridica che richiede ratifica volontaria e contribuisce a promuovere la cooperazione strategica. Il peacekeeping cavalca invece l’onda della distensione bellica, radicata nel desiderio di gettare le armi: l’obiettivo della missione militare dei “caschi blu” è di instaurare una pace duratura, che minimizzi i rischi di potenziali nuove escalation.

Il ritorno della lotta suprematista, eredità della Guerra Fredda, sembra minacciare l’efficacia del sistema ONU, le cui lacune mettono a rischio la stabilità mondiale.


FALLIMENTO IN COREA

I celebri Quattordici Punti del presidente statunitense Woodrow Wilson (1917) predicavano la risoluzione di controversie internazionali, future alla Prima Guerra Mondiale, senza ricorrere all’uso della forza: gli articoli 41 e 42 dello Statuto ONU legiferano affinché l’Organizzazione attui dapprima il dispiego di forze non armate che, se insufficienti, autorizzano dimostrazioni e blocchi militari, votati alla sicurezza internazionale.

L’intervento ONU nella Guerra di Corea (1950-1953), pilotato dal Consiglio di Sicurezza sotto la guida dell’esercito statunitense, è la prima storica crepa nel sistema ONU: l’azione bellica, autorizzata per rallentare l’avanzata nordcoreana, attentò ai valori fondanti delle Nazioni Unite, incapaci di servirsi del peacekeeping e costretti all’uso della forza; la lotta ideologica contro l’Unione Sovietica, divenuta una priorità, mise in secondo piano la ricerca del compromesso. L’armistizio di Panmunjom (1953) è per i critici di politica internazionale uno dei fallimenti più grandi del panorama geopolitico contemporaneo: dividere la Corea al 38° parallelo termina un conflitto rimasto irrisolto, e si lascia alle spalle una tensione diplomatica, nemica della pace duratura; la guerra è finita, ma a quale prezzo?

La Corea del Nord di Kim Jong-un è oggi una minaccia bellica per le relazioni internazionali: più volte accusato di destabilizzare la pace internazionale (art. 39 Carta ONU), il paese è vittima di sanzioni che non si sono mai tradotte in sospensione dall’Organizzazione; malgrado ciò, il recente dispiego di truppe militari nordcoreane a sostegno della Russia di Putin, durante il conflitto in Ucraina, denota una violazione del diritto internazionale incontestabile (per attentato alla sicurezza e contributo all’aggressione bellica) che potrebbe presto cambiare lo status ONU della Corea del Nord.


INEFFICACIA IN UCRAINA

La Russia è uno dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, organo esecutivo dell’Organizzazione: questa grande verità è alla base del mancato intervento dei “caschi blu” nel conflitto russo-ucraino, bloccati dalla paralisi dell’esecutivo ONU e dunque impossibilitati ad implementare misure di peacekeeping.

Ciascun membro permanente può infatti ricorrere al “diritto di veto” sulle risoluzioni ONU che autorizzerebbero un ingiustificato l’intervento militare: la Russia, esercente di tale diritto (conferitogli in quanto vincitrice della Seconda Guerra Mondiale), impedirebbe qualsiasi intrusione dei caschi blu sul campo della sua “operazione militare speciale", iniziata nel febbraio del 2022.

Sul Consiglio di Sicurezza è calato il gelo: le ingenti sanzioni e la sospensione temporanea della Russia dal Consiglio dei diritti umani (per violazione del diritto internazionale) non ne rallentano minimamente l’avanzata; Putin, leader della Federazione, approfitta della situazione precaria per sviluppare relazioni multilaterali con altre Organizzazioni del globo, quali i BRICS, o altre potenze dall’ideologia rivoluzionaria affine, quali la Corea del Nord e la Cina. In aggiunta, l’isolazionismo russo ha portato a galla la forte dipendenza dell’occidente dal suo gas, una risorsa primaria che danneggia l’economia mondiale tassello dopo tassello.

Putin risponde con riluttanza al mandato di arresto internazionale, diramato dalla Corte Penale Internazionale nei suoi confronti: tale organo venne istituito in seguito alla ratifica dello Statuto di Roma (entrato in vigore nel 2002), accordo multilaterale di cui la Russia non è firmataria, e che pertanto annulla i poteri giudiziari della Corte, oltre a vanificare l’applicabilità del mandato.

Tuttavia, esiste un possibile scenario che metterebbe la Russia nei guai: la risoluzione ONU 377A stabilisce che, qualora il Consiglio di Sicurezza si trovi in una condizione di stallo prolungato, l’Assemblea Generale (dove la Russia non ha potere di veto) può venire delegata dei compiti del Consiglio; ad oggi è improbabile che questo accada, poiché si tratterebbe della prima storica applicazione di una misura speciale mai evocata.

Il corso della Guerra in Ucraina potrebbe cambiare da un momento all’altro, e il mondo resta con il fiato sospeso di fronte a tanta incertezza.


IMPOTENZA IN PALESTINA

Il mandato di arresto internazionale emesso contro il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, segue lo stesso ragionamento: Israele non è a sua volta paese firmatario dello Statuto del 2002, e gode allo stesso tempo di protezione da parte degli Stati Uniti, sostenitori della legittima difesa israeliana contro il terrorismo di Hamas; all’Assemblea Generale dell’ONU, Netanyahu grida ad una nuova forma di discriminazione contro Israele che, seguendo le sue parole, si è spostata “dai campi in occidente ai tribunali dell’Aia”: agli occhi del Governo israeliano, l’ONU è oggi una “palude antisemita”.

Il Consiglio di Sicurezza si è spaccato di fronte al disastro umanitario a Gaza, dove i mediatori delle Nazioni Unite si rivelano incapaci di regolare tragedie di questo calibro; la maggioranza dei diplomatici mondiali si schiera a favore dei mandati di arresto contro i leader israeliani, accusati di genocidio e violazione dei diritti umani fondamentali; dall’altro lato, Tel Aviv e New York giudicano tali scelte come “gesti di rappresaglia”, atti a sollevare tensioni interne per ragioni economiche.

Le dichiarazioni del premier israeliano e la continua imposizione di veto da parte degli Stati Uniti rendono impossibile un immediato “cessate il fuoco” in Medio Oriente, dove il compromesso sembra un lontano miraggio.

In aggiunta, lo status di “osservatore permanente" dello Stato di Palestina in seno all’ONU (condiviso soltanto con Città del Vaticano e Taiwan), non fa altro che inasprire la difficile condizione umanitaria nella striscia di Gaza, dove le misure cautelari dovrebbero essere ancora più accurate.


USCIRE DALLA CRISI

L’unica maniera per uscire dall’abisso, secondo il segretario generale Guterres, sarebbe quella di dare priorità al dialogo diplomatico, promuovendo negoziati che coinvolgano i giovani (a cominciare dall’expertise delle ONG) anche nei processi decisionali.

La paralisi del Consiglio di Sicurezza pone in scacco lo stato di diritto, oggi ai massimi storici del pericolo, come conseguenza di ciò che i politologi chiamano “morte del multilateralismo”.

La necessaria approvazione unanime dei membri permanenti del Consiglio ha creato un “veto incrociato in seno ai poteri coercitivi dell’ONU, dove il supporto incondizionato degli Stati Uniti pro-Israele e l’alleanza ideologico-economica di Russia e Cina allontanano sempre di più la data di fine delle guerre in corso.

Fino a che il sistema umanitario più grande del pianeta avrà buchi da riempire, la richiesta di “cessate il fuoco”, ovunque venga richiesta, non avrà mai il finale che merita.

Una nuova cortina di ferro sta per scendere sul pianeta?

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