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Più diritti e democrazia. Il popolo polacco scende in piazza contro la legge anti-aborto

DI GIORGIA SCOGNAMIGLIO

15/10/2020

Una giovane donna in abito nero agita con forza una bandiera arcobaleno, muovendo il vento del cambiamento, soffiando il desiderio di libertà, di uguaglianza, di democrazia. L’hanno ribattezzata la Marianne polacca. La sua immagine è diventata simbolo della battaglia in corso in Polonia dopo che il governo e la chiesa cattolica hanno sferrato l’ennesimo attacco ai diritti delle donne. Infatti, il 21 ottobre una sentenza del Tribunale costituzionale ha vietato l’aborto in caso di gravi e irreversibili malformazioni del feto. Le donne polacche hanno invaso le strade di numerose città, reclamando non solo una legge sull’aborto più giusta ma la tutela dei diritti di tutti.

Una giovane donna in abito nero agita con forza una bandiera arcobaleno, muovendo il  vento del cambiamento, soffiando il desiderio di libertà, di uguaglianza, di democrazia. L’hanno ribattezzata la Marianne polacca. La sua immagine è diventata simbolo della  battaglia in corso in Polonia dopo che il governo e la chiesa cattolica hanno sferrato  l’ennesimo attacco ai diritti delle donne. Infatti, il 21 ottobre una sentenza del Tribunale costituzionale ha vietato l’aborto in caso di gravi e irreversibili malformazioni del feto. Le donne polacche hanno invaso le strade di numerose città, reclamando non solo una legge  sull’aborto più giusta, ma la tutela dei diritti di tutti.

La legge sull’aborto in Polonia. Dal compromesso della chiesa con i  liberali all’alleanza con la destra populista

La legge sull’aborto in Polonia era già tra le più restrittive d’Europa. Prevedeva la possibilità per la donna di abortire solo in tre casi: pericolo di vita della madre, malformazioni del feto e stupro. Firmata nel 1993, costituiva una sorta di accordo tacito con la chiesa cattolica, l’alleato imprescindibile in un paese in cui il processo di  secolarizzazione non si è mai completato; dove la politica la fa la chiesa fin dalla caduta del  regime comunista (1989). La “tangente” pagata alla chiesa, mettendo all’angolo la  questione di genere, avrebbe garantito infatti l’adesione all’Unione europea, in occasione del referendum popolare del 2003.

È solo con l’ingresso nell’Unione europea e le sue pressioni in merito, che i diritti delle  donne hanno iniziato ad avere copertura mediatica. Ma si trattava di un dibattito destinato a rimanere ai margini, il grido di un’opposizione alla “normalità” universalmente accettata. Non c’erano manifestazioni di piazza o organismi collegiali nei quali le donne facessero sentire la loro voce. C’erano solo singole donne coraggiose che uscivano dall’ombra per esprimersi nella sfera pubblica o in ambito artistico e letterario, venendo però, nella maggior parte dei casi, demonizzate o costrette al silenzio.

Il compromesso tra democrazia liberale e cattolicesimo nazionalista si è rotto quando nel  2013, la chiesa cattolica si è alleata con la destra populista antieuropeista, iniziando una campagna d’odio contro i collettivi femministi, le comunità Lgbt+, gli educatori sessuali e la popolazione rifugiata. Una visione che nell’autunno del 2015 ha portato alla vittoria del partito sovranista Diritto e giustizia (PiS).

I tentativi di vietare l’aborto: prima la via parlamentare, poi quella  giudiziaria

A pochi mesi dalla vittoria del partito Diritto e giustizia (PiS), la Conferenza episcopale polacca ha “invitato” il Parlamento a modificare la legge sull’aborto, rendendolo ammissibile solo in caso di rischio di vita per la donna. Per la prima volta le donne sono  scese in piazza, all’interno di un nuovo movimento, “Lo Sciopero delle

donne” (Ogólnopolski Strajk Kobiet), costringendo il PiS a fare marcia indietro. Un altro tentativo si registra poi nel 2018 con una nuova proposta di legge (“Stop all’aborto”) per eliminare il ricorso all’aborto per cause legate a malattie genetiche e malformazioni del feto. Anche in questo caso, le proteste non si fermano e il governo è costretto per la  seconda volta a ritirare la proposta.

Il 2018 è stato forse l’anno più buio per la democrazia polacca, travolta, insieme a quella di tanti altri paesi europei, dall’onda del sovranismo e del populismo. Agli attacchi reiterati ai diritti delle donne e alle comunità Lgbt+ si è affiancata una riforma della giustizia che  ha minato l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici della Corte suprema. Poi bloccata  dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, è costata alla Polonia una procedura di infrazione per violazione dell’articolo 7 del Trattato, pur non ricevendo mai effettive  sanzioni per mancanza di unanimità.

Ma l’intervento dell’Ue non ha fermato il progressivo controllo del potere giudiziario da  parte dell’esecutivo. Per questo, abbandonare la strada parlamentare e delegare la  questione dell’aborto al Tribunale costituzionale (in larga parte composto da giudici conservatori, molti dei quali nominati dal governo con forzature procedurali) è stato un passaggio scontato. Una scelta astuta nei modi, ma anche nei tempi per evitare intoppi: la sentenza è arrivata infatti nel pieno della seconda ondata del Coronavirus mentre il paese era ed è tutt’ora soggetto a vincoli alla circolazione. Un tentativo mal riuscito di evitare le proteste, insomma.

La sentenza del Tribunale costituzionale

La sentenza del Tribunale costituzionale, arrivata il 21 ottobre, ha vietato l’aborto in caso  di “gravi e irreversibili malformazioni del feto”: il 98% del totale in Polonia.  L’aborto resterebbe ammissibile “sulla carta” solo in caso di pericolo di vita della madre o  di stupro, quindi nel 2,4% dei casi. “Sulla carta”, perché anche nei casi in cui l’aborto è legale, nella pratica quotidiana ci sono ostacoli e limitazioni da superare.

Ai vincoli della legge bisogna infatti sommare quelli posti dai numerosi obiettori di  coscienza. Ma anche quelli relativi alla definizione di stupro”, dal momento che la Polonia si è ritirata, proprio quest’anno, dalla Convenzione di Istanbul: lo strumento giuridico più completo (e il primo vincolante) per la tutela dei diritti delle donne ed il contrasto alla violenza di genere. La motivazione? “Ideologie contrarie ai valori  tradizionali” e “contrasto con la visione di famiglia tradizionale polacca”. Mentre la legislazione nazionale sarebbe, a parere del governo, più che sufficiente a proteggere le donne. Eppure, secondo il Centro per i diritti delle donne di Varsavia nel Paese ci  sarebbero circa 800 mila episodi di violenza l’anno e tra le 400 e le 500 donne  vittime di femminicidio.

Secondo la politica e attivista bosniaca Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa “la decisione comporterà l’aumento di aborti clandestini e all’estero per chi se lo può permettere”. Infatti, ogni anno tra le 100 mila e 200 mila donne sono già costrette a ricorrere all’aborto clandestino o ad andare all’estero, in genere in Repubblica Ceca, Germania, Olanda, Slovacchia o Ucraina. Pare che a Varsavia esistano perfino dei collettivi che si occupano di organizzare i viaggi e contribuire al finanziamento.

Lo scoppio delle proteste e le reazioni del governo

La decisione presa dal Tribunale costituzionale ha trovato tutt’altro che indifferenza nella  popolazione polacca. Partendo dalla capitale, le proteste si sono diramate in più di 50

città, sfidando le restrizioni dovute alla pandemia. Blocchi stradali, sit-in davanti alle  chiese, marce davanti ai palazzi del potere, vernice rosso nera e slogan contro le “buone maniere”.

Giorno dopo giorno il fronte si è allargato: accanto alle donne si sono schierati studenti e  organizzazioni per i diritti Lgbt+, ma anche gruppi sociali tradizionalmente  conservatori (contadini, tassisti, conducenti di mezzi pubblici). Del resto, c’era da aspettarselo. Un sondaggio diffuso dall’istituto Kantar ha rivelato che la destra populista alla guida del paese è scesa al 30% dei consensi. La percentuale di polacchi che chiede le  dimissioni del governo è schizzata al 71,5%, con picchi dell’80% se si guarda alle donne e ai giovani. Mentre l’attacco politico della chiesa, percepito da molti come un tradimento alla democrazia polacca, ha provocato il distacco di molti fedeli.

Le forze di polizia della Polonia hanno tentato di sedare le proteste facendo ricorso alla  forza e agli arresti arbitrari. Kaczynski, leader del PiS e guida de facto del paese, ha  invitato i suoi sostenitori a proteggere le chiese dall’ “attacco delle donne” e accusato le opposizioni di trascinare persone in strada nonostante gli elevatissimi rischi sanitari. A sostenerlo, il ministro della giustizia Ziobro che pare intenzionato ad incriminare gli organizzatori della protesta per il mancato rispetto delle limitazioni.

Dal “femminismo” alla lotta per la democrazia

Intanto, il Presidente della Repubblica Andreij Duda ha proposto al Parlamento di ridimensionare la modifica della legge “in modo minimo”, consentendo l’aborto “nei casi in cui sia alta la probabilità di morte del feto”. Le gerarchie ecclesiastiche non  hanno intenzione di scendere a compromessi. Ma non ne hanno intenzione neppure le attiviste dello “Sciopero delle donne” che si fermeranno soltanto di fronte a un vero cambiamento.

To jest wojna: questa è una guerra. E questa volta non sono sole a combatterla. Quella in corso in Polonia non è una protesta “femminista”, delle donne per le donne, ma una protesta orizzontale che ha risvegliato le coscienze dell’intera società civile.  L’atmosfera è quella di una rivoluzione non violenta che unisce la questione di genere e la difesa dei diritti delle donne alla lotta per la democrazia. Un duro colpo per la destra  populista e per gli ultracattolici di tutto il mondo. Una vittoria per le donne, o meglio, per il “popolo femminile” che dopo due decenni di demonizzazioni e ridicolizzazioni, diventa un’entità politica collettiva e propone un Manifesto per una nuova Polonia,  rivendicando non solo una legge sull’aborto simile a quelle in vigore nel resto dell’Europa, ma maggiore assistenza sanitaria e coperture sociali per le fasce più deboli, diritti umani per tutti (donne, Lgbt+, minoranze, anziani, persone con salario basso, disabili), le  dimissioni del governo e un assetto finalmente laico dello Stato.

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