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G20 in Arabia Saudita: la figura di Bin Salman e la maschera del progresso

DI GIORGIA SCOGNAMIGLIO

02/12/2020

A causa della pandemia, il 15° vertice del G20 si è tenuto virtualmente, in videoconferenza da Riyad. Nessun tappeto rosso, ma una vetrina per il regno saudita e per l’enigmatica figura di Mohammed bin Salman.

Il 21 e 22 novembre i leader dei paesi più industrializzati del mondo si sono riuniti per discutere alcune delle principali questioni dell’economia globale e affrontare le nuove sfide lanciate dal Covid-19. A causa della pandemia, il 15° vertice del G20 si è tenuto virtualmente, in videoconferenza da Riyad. Nessun tappeto rosso, ma una vetrina per il regno saudita e per l’enigmatica figura di Mohammed bin Salman (MbS). Presentato dai media internazionali come il protagonista del rinnovamento dell’immagine del Paese, è in realtà responsabile del disastro umanitario in Yemen, dell’incarcerazione di numerosi giornalisti, attivisti e dissidenti pubblici ed è sospettato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.


Mohammed bin Salman, un’ascesa al potere machiavellica

Mohammed bin Salman ha solo 35 anni, ma è uno dei leader più potenti e controversi che il mondo arabo abbia mai visto. Membro della famiglia reale Al Saʿūd e figlio dell'attuale re Salman, è entrato in politica come consigliere speciale di suo padre quando quest'ultimo era governatore della provincia di Riyad. Da quel momento ha cominciato ad accumulare incarichi, ma la vera svolta è avvenuta nel 2015 con la morte del re Abdullah e la successione al trono di Salman bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd, suo padre. Infatti, MbS è stato prontamente nominato ministro della Difesa (il più giovane del mondo), Segretario Generale della Corte Reale e Vice Principe ereditario. La corona, in linea con le regole tradizionali di successione e la legge non scritta del “seniorato”, era destinata a passare al fratellastro Muqrin bin Abdulaziz, poi, sollevato dalla carica, al nipote Muḥammad bin Nāyef, ministro dell’Interno.

Dal 2017 qualcosa ha cambiato il corso della storia saudita: a giugno bin Nāyef riceve l’ordine di farsi da parte a favore di suo cugino MBS e sparisce dalla vita pubblica. Qualche mese dopo, 200 tra principi e dirigenti d’azienda vengono arrestati con l’accusa di “corruzione” e portati nel lussuoso Ritz-Carlton Hotel di Riyadh, costretti a firmare accordi per la cessione di denaro e la rinuncia al potere. I critici di MbS hanno interpretato il gesto come un abile gioco di potere per neutralizzare chiunque potesse ostacolarlo nell’ascesa al potere. Da allora, MbS ha assunto sotto il suo controllo gli incarichi più importanti: la Guardia Nazionale, il Ministero dell’Interno e l’Esercito. Sotto la protezione del padre, è considerato di fatto il sovrano del regno e si appresta ad esserlo per i prossimi 50 anni.


Quale progresso?

Un riformatore, un modernizzatore economico e sociale. In questo modo Mohammed bin Salman è stato presentato all’opinione pubblica internazionale grazie anche (e soprattutto) a costose campagne di pubbliche relazioni condotte dalle autorità saudite.

Sul piano economico, chiave della sua popolarità, sono gli sforzi per diversificare l’economia saudita - la più grande produttrice di petrolio al mondo - attirando investimenti esteri e fornendo posti di lavoro a milioni di giovani sauditi disoccupati. Il piano Vision 2030 è molto ambizioso, con 64 miliardi di dollari da investire in turismo e intrattenimento per fare dell’Arabia saudita l’hub globale di collegamento tra Europa, Asia e Africa e tra le prime 10 mete al mondo per il divertimento. Su richiesta di MbS è stata creata l’Autorità generale dell’intrattenimento, sono stati riaperti cinema rimasti chiusi dagli anni ’70, rilasciati permessi per festival, concerti pubblici, musica nei ristoranti e nei negozi e persino per una messa copto-cristiana. Sul piano sociale, nel 2018 sono state introdotte riforme al sistema repressivo del tutoraggio maschile, il che ha consentito la revoca del divieto di guida alle donne e l’ottenimento del passaporto, con la possibilità di viaggiare senza il permesso di un tutore maschile.

Trump ha parlato di una “rivoluzione positiva” in atto, eppure, pare che l’apertura saudita sia più che altro una fantasia. I rapporti prodotti dalle organizzazioni internazionali fotografano infatti una realtà molto diversa.


La repressione della libertà di espressione

“Da quando ha assunto la presidenza del G20, l’Arabia Saudita ha investito ingentemente nel rinnovamento della propria immagine, lanciando slogan sull’uguaglianza delle donne e ribadendo di essere pronta per il cambiamento. Ma chi ha veramente cambiato le cose in Arabia Saudita si trova in carcere” (Lynn Maalouf, Amnesty International)

Nel 2018 la repressione dei diritti alla libertà di espressione è stata intensificata, portando l’Arabia Saudita al 170° posto su 180 per libertà di stampa (World Press Freedom Index, RSF). Arresti, processi, condanne arbitrarie a dissidenti, difensori di diritti umani ed esponenti della minoranza sciita. Prassi aiutata da un sistema giudiziario compromesso, interamente sotto il controllo dell’esecutivo, che non garantisce il rispetto degli standard di equità né le giuste tutele agli imputati: processi svolti a porte chiuse, senza rappresentanza legale e senza servizi di traduzione per i cittadini stranieri, confessioni estorte sotto tortura e condanne a morte emesse per molte tipologie di reato, con un forte aumento delle esecuzioni in materia di droga e di “terrorismo”. La legislazione antiterrorismo è stata applicata spesso proprio per perseguire giornalisti, attivisti, difensori dei diritti umani, criminalizzando qualunque critica nei confronti delle politiche del governo. Nel 2018 il Ministero del regno ha annunciato una pena di 5 anni di reclusione e una multa di 734 mila dollari per chiunque fosse sorpreso a pubblicare o condividere sui social media “contenuti che ridicolizzano, prendono in giro, provocano e disturbano l'ordine pubblico, i valori religiosi e la morale pubblica”. Addirittura, pare che il governo abbia condotto un’aggressiva strategia di sorveglianza informatica (gestita da Al-Qahtani, guardiano non ufficiale di MbS) per controllare i sauditi sia in patria che all’estero.

Insomma, chiunque tenti di avanzare rivendicazioni o di mettere in discussione l’autorità saudita viene violentemente represso. Il cambiamento sbandierato da MBS è unidirezionale, può avvenire solo dall’alto, con i modi e i tempi previsti dalla Corona: “It’s either my way or the highway”, prendere o lasciare.

È il caso delle 5 attiviste per i diritti delle donne detenute nelle carceri saudite, tra le quali Loujain al Hathloul. Da due anni e mezzo in carcere per essere stata tra le prime donne a sfidare la legge mettendosi alla guida dell’automobile, ha subito maltrattamenti, torture, violenza sessuale e isolamento, non potendo vedere né i familiari né gli avvocati. Altre 14 persone sono sotto processo per aver appoggiato il movimento per i diritti delle donne e le attiviste per i diritti umani. Secondo i dati di Amnesty International alla fine del 2019 praticamente tutti i difensori dei diritti umani dell’Arabia Saudita “erano detenuti senza accusa o erano sotto processo o stavano scontando periodi di carcere”.

È il caso dei 34 giornalisti in prigione e del brutale assassinio di Jamal Khashoggi, giornalista saudita del Washington Post. Noto per i suoi articoli contro la politica del governo, era considerato un’enorme minaccia per il principe MbS: il fatto che fosse anche un importante esponente della società e dell’establishment del regno gli permetteva di guadagnare una certa credibilità tra i sauditi.

Delle 11 persone incriminate per l’omicidio, cinque sono state condannati a 20 anni di carcere e altre tre a pene che vanno dai 7 a 10 anni. L'Onu ha definito la sentenza "una parodia della giustizia": i fedelissimi del principe sono stati infatti indagati e poi assolti. In particolare, Al-Qahtani, guardiano non ufficiale del principe ereditario e principale sospettato, pur mantenendo un basso profilo non è stato mai arrestato per “insufficienza di prove” e continua a svolgere un ruolo attivo negli affari di sicurezza del regno. Nonostante la negazione di ogni coinvolgimento, le agenzie di intelligence occidentali ritengono che MbS fosse perlomeno a conoscenza dell’operazione (nulla può accadere, di fatto, nel Golfo senza l’approvazione della Corona), mentre la CIA ritiene sia il mandante. A sostenere la sua innocenza, invece, l’ex presidente Trump che non ha esitato a schierarsi contro i parlamentari repubblicani e democratici pur di assicurare la sua impunità.

Dopo lo scandalo internazionale di Khashoggi, il rapporto di MbS con i leader occidentali è iniziato a cambiare, ma solo di facciata. Gli affari in privato sono continuati con lo stesso ritmo. Del resto, l’Arabia saudita ha un mercato troppo redditizio e una posizione troppo strategica per essere messa da parte.


La guerra in Yemen

Nel 2015 l’Arabia saudita stava affrontando una crisi crescente sul confine meridionale. Gli Houti, una tribù sciita delle montagne settentrionali, avevano marciato sulla capitale, spodestato il governo e preso il controllo della maggior parte del territorio yemenita. MBS, convinto della loro vicinanza ideologica e religiosa (oltre che militare) all’Iran – nemico numero uno del regno - lancia quello che avrebbe dovuto essere un intervento militare rapido e decisivo, l’operazione “Tempesta Decisiva”. L’Arabia Saudita si è ritrovata immersa in una guerra senza fine e in una catastrofe umanitaria senza precedenti nella storia, con il sostegno tecnico e logistico delle potenze occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna e anche Italia). Migliaia le vittime civili e l’80% della popolazione che necessita di aiuto e assistenza umanitaria. Ospedali e zone residenziali ridotte in mille pezzi, malnutrizione, mutilazioni, malattie, cui si somma quest’anno il peso della pandemia Covid-19. Anche in questo caso, MbS è rimasto impunito.


La presidenza al G20: a quale prezzo?

Il vertice G20 di quest’anno arriva nel pieno dell’emergenza Covid e alla fine della presidenza Trump, il miglior amico dei sauditi. Cambiano le modalità (in virtuale), ma non le finalità: le prime venti potenze economiche del mondo si riuniscono per discutere di politica economica, con una novità, esaminare l’impatto della pandemia sull’economia mondiale e i modi per stimolare la ripresa.

Non è compito del G20 interferire nella politica interna dei paesi, ma è davvero possibile chiudere gli occhi davanti agli abusi commessi dall’Arabia Saudita?

L’organizzazione Human Rights Watch si è schierata contro la presidenza assegnata al governo saudita, comunque un marchio di prestigio internazionale concessogli “nonostante l’inesorabile assalto alle libertà fondamentali”. Sia HRW che Amnesty International hanno esortato i capi di Stato a prendere posizione e sollecitare le autorità saudite affinché rilascino gli attivisti detenuti illegalmente e si assumano la responsabilità per gli abusi compiuti. Reporter Without Borders (RWS) alla vigilia del vertice ha chiesto il rilascio dei giornalisti ingiustamente detenuti e la libertà di stampa effettiva, diffondendo un’immagine in cui i volti dei giornalisti si sovrappongono a quelli dei partecipanti al G20. Oxfam ha ricordato (e condannato) il contributo dei paesi del G20 al disastro umanitario in Yemen attraverso l’esportazione di tonnellate di armi verso l’Arabia Saudita. Nel frattempo, alcuni sindaci di città del mondo (tra cui Parigi, Londra, New York) si sono rifiutati di partecipare all’Urban 20 (U20) - un vertice dei sindaci tenutosi ad ottobre e inserito negli incontri previsti per il G20 – per non dare sostegno al governo saudita. Di fronte alle numerose pressioni internazionali, l’ambasciatore saudita del Regno Unito aveva dichiarato che almeno le attiviste per i diritti delle donne sarebbero state rilasciate prima del vertice.


Nulla di tutto ciò è accaduto. Il vertice si è tenuto regolarmente nella totale indifferenza dello stato reale delle cose, alimentando così la maschera di un regno saudita progressista e riformatore. La presidenza dell’Arabia Saudita e del suo leader al G20, così come il silenzio dei potenti del mondo sono l’ennesima dimostrazione di quanto i diritti umani siano sacrificabili di fronte alle opportunità economiche. Come se i petrodollari riuscissero a lavare il sangue dalle coscienze senza lasciare quantomeno un’enorme macchia nera.

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