Israele e la rivoluzione degli shorts
DI ANTONIO CARELLO
29/12/2020
Alte temperature e pantaloncini di jeans, sospensioni scolastiche e bigottismo, disparità di genere e adolescenti in rivolta. Cronaca di una protesta che rischia di aver aperto il vaso di Pandora in uno dei Paesi più controversi al mondo.
Il 17 maggio, dopo settimane di chiusura a causa del Coronavirus, il governo israeliano decide di riaprire le scuole. L’evento coincide con una delle più intense ondate di caldo che il Paese abbia conosciuto. In molte aree si superano i 40 gradi °C, scoppiano incendi e il Servizio Meteorologico Israeliano lancia l’allarme. Lo stesso giorno, Kai entra nella Alon Middle School, l’istituto di Ra’anana da lei frequentato e, a causa del forte caldo, indossa gli shorts. Ma la ragazza israeliana, quel giorno, non raggiungerà la propria classe, perché l’autorità scolastica deciderà di sospenderla per aver infranto il dress code. Questo provvedimento scatena rabbia in tutta la nazione. Molte ragazze si recano a scuola indossando gli shorts, in segno di protesta contro un provvedimento sessista e retrivo.
Chiedono giustizia e parità di trattamento, in quanto le ragazze in shorts vengono sospese mentre i ragazzi in pantaloncini no. Le altissime temperature non sembrano aver sciolto il moralismo che sta dietro all’applicazione di una regola religiosa in una scuola laica. La direttrice della scuola frequentata da Kai non ha mai dato pubblicamente delle spiegazioni sull’accaduto, mentre una sua consigliera considera il divieto una questione di rispetto: «Non è vietato recarsi a scuola con gli shorts, l’importante è che siano lunghi oltre il ginocchio. Ciò vale sia per i ragazzi sia per le ragazze. Non considerateci conservatori, non è castità». La madre di Kai ha un punto di vista completamente diverso: «Trent’anni fa anch’io indossavo gli shorts. Speravo che in Israele avessimo fatto dei passi in avanti, non indietro».
Non è l’unico episodio
Il 18 maggio, solo 24 ore dopo la sospensione di Kai, si consuma un episodio ben più increscioso. In una scuola elementare di Petah Tikva, una bambina di sette anni si presenta a scuola indossando un abito smanicato. Poco dopo il suo ingresso in classe, la maestra la obbliga a rimuovere il proprio indumento sostenendo che non fosse adeguato all’ambiente scolastico. L’insegnante, in seguito, avrebbe contattato la madre consigliandole di portare alla figlia un diverso capo d’abbigliamento. La madre, impossibilitata a recarsi in loco, accetta che sia la scuola a prestare una t-shirt a sua figlia, inconsapevole che la docente non avesse intenzione di farla indossare sul vestito della bambina, ma al posto di esso. Costretta a passare il resto della giornata con le gambe scoperte e l’intimo a vista, la bambina da mesi si rifiuta di tornare in quella scuola. «Non mi ero accorta che la bambina non indossasse i pantaloncini sotto al vestito», dice la maestra. In seguito a questa notizia, Limor, una donna di Haifa e madre di due gemelle di sette anni, ha preso coraggio e ha dichiarato che le sue figlie avevano subito un’“ispezione ai pantaloni” poco tempo prima. Il ministero ha manifestato dispiacere, ma non ha mai preso provvedimenti a riguardo.
Perché la rivolta degli shorts ha agitato così tanto il Paese? Le donne e lo tzniut
Questo pezzo di stoffa ha riacceso il dibattito tra due fazioni israeliane che sono ai ferri corti sin dalla fondazione di questo giovane Stato: i residenti a ovest, più liberali, opposti ad una società religiosa molto conservatrice. A popolare quest’ultima sono gli ebrei ortodossi e quelli ultraortodossi, che esercitano pressione su ogni aspetto della vita quotidiana israeliana. Alle donne viene negata la partecipazione agli eventi pubblici e i muri delle loro case spesso riportano le istruzioni sull’abbigliamento femminile consentito nel quartiere.
In molte scuole viene insegnato lo tzniut, la “modestia”. Si tratta di una norma religiosa, più rigida per il sesso femminile che disciplina il modo di esprimersi, l’uso dei vocaboli, la gestualità e persino il modo in cui sedersi. Alle donne non è consentito indossare pantaloni, tantomeno shorts, bensì solo gonne e sempre sotto al ginocchio. Anche indossare maglie a maniche corte è proibito, in quanto i gomiti devono rimanere coperti. Un’insegnante dichiara: «Lo tzniut è fondamento della religione ebraica, non è un abito, ma un modo di essere. Perché la donna non è un bene di tutti».
Adolescenti disuniti in merito alla protesta degli shorts e l’importanza dei social
La lotta di Kai fa il giro del web, ma non tutte le sue coetanee sono d’accordo con lei. Come Léa, studentessa francese trasferitasi in Israele per ricevere un’educazione di stampo religioso: «È sbagliato indossare gli shorts, non solo a scuola. Rischi di provocare i ragazzi. Queste regole sono state pensate per noi, seguendole siamo sulla buona strada per diventare brave ragazze». «È meglio per me, mi sento rispettata – dice Shany, un’altra studentessa – In questo modo guardano dentro di me e non il mio corpo». Nei giorni seguenti alla protesta, una docente stava sull’uscio della scuola a controllare che le studentesse fossero vestite in maniera “adeguata”, altrimenti venivano indirizzate in biblioteca, poiché l’ingresso in classe veniva loro proibito. Nella società israeliana odierna, i religiosi muovono contestazioni su ogni argomento, ma a Ra’anana Kai ha ottenuto una piccola grande vittoria. Difatti, la protesta ha avuto grande risonanza grazie alla complicità dei social: migliaia di “seguaci” hanno condiviso la lotta in tutto il Paese. «Il sostegno è importante, altrimenti non possiamo far nulla - dice Kai – Non è solo per gli shorts, è una lezione di vita: non rinunciare. Lotta in quello che credi finché non capiscono cos’hai da dire». Ora, nella sua scuola, le ragazze possono camminare in shorts, disturbate dagli sguardi attoniti delle compagne che non condividono questo uso, ma non più dal rischio di una sospensione.
Femminismo contro estremismo religioso: Israele può essere davvero teatro dello scontro?
La lotta la conosce bene Bracha Barad, esponente dell’organizzazione femminista Kulan: «Ogni anno si parla sempre più di abbigliamento, come se fosse un argomento di discussione, se sei maturo per la società o no. In questo Paese si vive l’ingiustizia già da giovani e non smetterà mai di essere così. Nell’esercito, sul lavoro, per strada». Kulan ha portato nelle strade di Tel Aviv migliaia di persone in protesta contro i macho di una società ormai plasmata da rabbini e soldati. In shorts, top e abiti succinti le ribelli si oppongono. Alcune manifestanti sono coperte solo da striscioni che recitano: «Non è un invito a violentarci» o «Meritiamo rispetto a prescindere da come ci vestiamo».
Yasmin, una militante, sostiene: «La religione farà sempre parte della nostra nazione e del nostro ambiente, ma anche i laici vogliono poter dire la loro sulla società. Non abbandoneremo lo spazio pubblico senza lottare. Lotteremo sempre». È una lotta esistenziale, ma i laici non hanno modo di cambiare Israele.
È proprio questo il paradosso della nazione fondata per accogliere gli ebrei: senza l’orientamento religioso, allo Stato del popolo ebraico verrebbe tolta la sua finalità.
Come spiega il rabbino Joël Kling: «Il nostro popolo, una volta rientrato in Palestina, aveva l’obiettivo di fare di questo territorio il nuovo rifugio ebraico. Questo significa che viviamo secondo le regole dell’Ebraismo. Altrimenti saremmo vuoti, come gli ebrei di New York».
È proprio questo il fulcro della questione: Israele non è uno Stato laico, sebbene la classe politica locale presenti la nazione (soprattutto a noi occidentali) come un luogo socialmente libero e promotore della libertà di espressione e della parità di genere. Ma nell’unica democrazia del Medio Oriente, come molti israeliani amano chiamare il proprio Stato, la realtà è ben diversa.