Criticità della transizione energetica. Intervista a Massimo Nicolazzi
DI GIORGIA SCOGNAMIGLIO
22/12/2020
A che punto siamo con la transizione energetica? Cosa è stato fatto e cosa no, in Italia e nel mondo? Quali interventi occorre mettere in atto? Ne parliamo con il dott. Massimo Nicolazzi, membro della Rivista Geopolitica Italiana “Limes”.
l Coronavirus ha cambiato improvvisamente le nostre abitudini, mostrandoci che un’altra società, più interconnessa e sostenibile, non è poi così tanto un’utopia. Con le restrizioni adottate, gli effetti sull’inquinamento atmosferico sono stati non solo percepibili ,ma visibili dalle rilevazioni satellitari della NASA e dell’ESA nell’aprile di quest’anno. La crisi potrebbe essere l’occasione per i governi di ripensare alcune modalità produttive, che da misure di emergenza potrebbero diventare parte della nostra quotidianità. Del resto, siamo anche nel bel mezzo dell’European Green Deal, la sfida lanciata dalla Commissione europea per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Un percorso ambizioso che, nonostante i progressi, potrebbe rilevarsi più lungo del previsto.
A che punto siamo per la transizione energetica? Cosa è stato fatto e cosa no, in Italia e nel mondo? Quali interventi occorre mettere in atto? Ne parliamo con il dott. Massimo Nicolazzi, membro della Rivista Geopolitica Italiana “Limes”, con 35 anni di esperienza nel settore degli idrocarburi, avendo lavorato per Agip/Eni e Lukoil prima di essere nominato Ceo di Centrex Europe.
Qual è il rapporto tra sicurezza e transizione energetica?
Siamo ancora abituati a lavorare con quello che io chiamo il “paradigma del 1973”, quello della Guerra dello Yom Kippur, della sicurezza dell’approvvigionamento. In un'economia nella quale la transizione energetica non faceva neanche i primi passi, comunque il paradigma del ‘73 era già andato in cavalleria senza che noi ce ne accorgessimo. Se si guarda alla crescita demografica dei paesi produttori e all'incidenza della rendita petrolifera sul PIL dei paesi esportatori - parlo del Medio Oriente, e della stessa Russia per molti versi - ci si rende conto che questi paesi, anche contraddistinti da una scarsa propensione al voto trasparente e al regime di governance, sono diventati in larga parte dipendenti per il loro budget statale dalla rendita petrolifera. E di conseguenza anche per il welfare, l’assistenza medica, le pensioni… tutti fattori che in termini di consenso contano molto. Quindi, la sicurezza energetica intesa come sicurezza di approvvigionamento da una fonte affidabile era già passata in cavalleria, perché fondamentalmente gli stati produttori avevano perso la libertà di non vendere: se i regimi volevano sopravvivere politicamente avevano bisogno della rendita petrolifera.
Nel frattempo, diventando sempre più elettrico il mondo e più importanti le reti di distribuzione, il tema cominciava a spostarsi dall'approvvigionamento alla generazione, alla conversione e alla distribuzione, cioè alla sicurezza di sistemi sempre più complessi. Se la decarbonizzazione fosse compiuta domani mattina, le fonti diventerebbero essenzialmente aria, acqua e sole. Non esisterebbe più un tema di sicurezza di accesso alla fonte perché l’accesso sarebbe globale e diffuso. Si tratterebbe solo di capire chi converte meglio la fonte, chi ne ricava più lavoro utile, chi la distribuisce meglio. Ecco, in questo senso la transizione energetica in qualche modo contempla il totale superamento di un paradigma della sicurezza legato alla fonte di approvvigionamento.
Come vede l'apporto statale e come pensa possano impattare i mercati, per come sono costruiti adesso, in questo percorso di transizione?
Quando parliamo di sostegno statale non stiamo parlando necessariamente di un finanziamento diretto. Una forma di sostegno molto diffusa è la garanzia di poter scaricare sulla bolletta del consumatore i costi di investimento e la remunerazione del capitale: oggi, il 20% della sua bolletta elettrica viene trasferito dal suo conto bancario ai conti di quelli che hanno ricevuto sussidi per la generazione di rinnovabile. Non sembra sostegno statale perché non c'è la tassa, ma è lo stesso meccanismo delle autostrade: più il concessionario spende più incassa, perché lo scarica tutto sul pedaggio. Con una condizione di questo genere il “mercato” si scatena perché scaricando sui consumatori i costi attraverso le bollette, fondamentalmente si toglie al capitale il rischio di impresa. Stiamo parlando di investimenti che lasciati al mercato - sicuramente al meccanismo di determinazione dei prezzi all'ingrosso - sono molto rischiosi e sono investimenti che per loro natura hanno un ritorno di lungo periodo. Altro esempio clamoroso di intervento statale del genere è quello della nuova città nucleare nel Regno Unito, Hinkley Point, su costruzione francese. Il governo francese ha concordato una tariffa di ritiro dell'energia elettrica calcolata sull'investimento e sulla sua remunerazione che è quasi il doppio dell’attuale prezzo di mercato (la differenza, ovviamente, ricadrà sulle bollette dei consumatori). Tutto questo mi inquieta rispetto al tema sociale: ricordiamoci che i gilet gialli sono formalmente nati su una roba che il governo gli aveva venduto come Carbon Tax.
A che punto siamo, invece, nell’incentivare alla transizione energetica attraverso, non semplicemente un sussidio alla decarbonizzazione, ma una maggiore tassazione delle fonti fossili? In Italia, questo si è intravisto?
Io sono un grande fautore della Carbon tax e della tassazione pigouviana. Cecile Pigou 100 anni fa è stato il primo che ha teorizzato una soluzione al problema delle esternalità: le esternalità negative (quindi le emissioni inquinanti) devono essere incorporate nel prezzo della commodity o del manufatto la cui fabbricazione le ha generate. Tuttavia, in Italia ci sono dei limiti oggettivi all’introduzione di ulteriore tassazione: i settori energivori sono assorbiti dal sistema europeo dei permessi di emissione; sui non energivori c’è uno studio dell’International Monetay Fund in cui viene fuori che la benzina in Italia è l'unico carburante che subisce una tassazione ultra-pigouviana - se ci mette insieme IVA, accisa e tutto quanto - quindi margini di rialzo ulteriore del prezzo non ce ne sono. Oppure, una cosa che emette molto in atmosfera ma che non è tassata sono i processi di gestione bovina. Insomma, in pianura padana, tassare le mucche per emissione non credo farebbe vincere le elezioni.
Restando sull’Italia e sulla situazione di crisi strutturale emersa da un anno a questa parte, possiamo rinvenire dei risultati migliori in determinati settori? Quanto potrebbero contribuire le recenti misure previste in termini di sovvenzione energetica sostenibile?
Francamente, non so se la sovvenzione energetica sostenibile farà qualcosa. L'unica cosa che potrebbe succedere - però non è detto che succeda anche in Cina o in India - è che il Covid cambi un po' le forme della nostra mobilità quando ne verremo fuori. Nel senso che, ad esempio, mentre nel periodo pre-Covid eravamo al pendolarismo quotidiano ed estremo, nel periodo post-Covid gli spostamenti potrebbero essere ridotti. Per andare a lavorare, ma anche per quanto riguarda il commercio al dettaglio. Questo sarà forse l’effetto più visibile. Per il resto, vedo degli interventi che sono di sostegno al consumo piuttosto che interventi significativi dal punto di vista del paniere energetico.
Viene spontaneo a questo punto riflettere sul rapporto tra società e politica: non solo dal punto di vista del finanziamento economico e della possibilità di innalzare le tasse alla produzione, ma anche dal punto di vista del consumo. Come fare a deviarlo? Lei ha parlato all'inizio del ruolo giocato dalla rete di distribuzione. A questo proposito, sul piano internazionale, alle comunità più povere si chiede uno sforzo maggiore per affrontare il problema energetico creato dalle comunità più ricche, il che le rende più riluttanti ad impegnarsi in questo ambito di limitazione. C'è una maniera, magari la cooperazione internazionale e che tipo di cooperazione, per ovviare a questo problema?
Continuiamo ad essere molto astratti. Il problema che abbiamo davanti si chiama Africa. Sebbene stia compiendo passi in avanti per quello che riguarda la transizione energetica, anche se con velocità diverse e in maniera differenziata, piazzare quattro pannelli solari al suolo non elimina la cattiva abitudine di bruciare biomassa. C'è un tema molto delicato che riguarda la necessità di far partire un processo di distribuzione dell'energia e quindi anche un nuovo processo produttivo. Purtroppo, in situazione nelle quali i regimi disperdono le risorse per definizione (penso alla Somalia), o occupi militarmente o non riesci ad aiutarla, ma questo non si può dire a voce alta perché è political discorrect. Credo che il tema sia lì. Anche perché ci sta arrivando sulla testa. Se si guardano i tassi di natalità, 18 in classifica sono Stati africani. (La domanda energetica dell’Africa conoscerà, quindi, una crescita significativa nei prossimi 20 anni)
L’ipocrisia la rinveniamo anche se ci focalizziamo sul teatro occidentale. Quanto sensibilizziamo, magari negli ultimi anni, per una transizione davvero energetica? E quanto le analisi di geopolitica rinvengono in questa politica di potenza per il controllo delle risorse energetiche, per le trivellazioni e per il controllo dei confini marittimi e geografici?
Abbiamo solo una chance. Se Stati Uniti e Cina si convincono reciprocamente che la partita tra loro se la giocano sulle tecnologie della transizione come lever di dominio allora ci decarbonizziamo. Allo stesso tempo, noi nel nostro 1%, con il nostro piccolissimo potere negoziale, cosa stiamo facendo?
Per chiudere, nella conferenza ha citato Keynes - «nel lungo periodo siamo tutti morti» - per leggere la transizione energetica. Ma se volessimo, invece, porre l'accento su una visione più concreta, cioè pensare al breve termine piuttosto che al lungo termine, è possibile rinvenire una fonte di coraggio politico nell'affrontare il tema adeguatamente?
Noi siamo un paese che ha avuto una forte emigrazione dell'Industria energivora, c'è rimasta solo l'ILVA e poco più. Ci sono due o tre cose che possiamo fare ancora per le emissioni ma non molte di più di quelle tradizionali. Dal carbone ad alcune scelte di politica industriale, alla questione degli allevamenti bovini. Mentre la chiusura dell’ILVA è solo una presa in giro perché ad idrogeno l’acciaio lo faremo forse nel 2030. Iniziamo a lavorare seriamente, invece, a programmi di difesa del territorio e dell’ambiente. Siamo un paese pieno di dissesto idrogeologico e mi dicono perfino che avremmo anche i soldi ma non riusciamo a spenderli. Piani, progetti e procedure utilizziamoli per la difesa del suolo.