Unione Europea: dov’eravamo, dove siamo, dove saremo
DI SILVIA PANINI
1/03/2020
Sul palcoscenico geopolitico attuale recitano contemporaneamente molti attori. Ripercorriamo la storia di uno di questi, in bilico tra ruoli centrali e da comparsa. E domandiamoci: potrebbe ancora competere per l’Oscar come non-protagonista?
Sono passati più di settant’anni da quando Winston Churchill, allora non più alla guida del Regno Unito, propose un concetto che ad oggi ancora divide le opinioni e i cuori: la creazione degli “Stati Uniti d’Europa”. Brividi di paura o di trepidazione? In base alla vostra reazione, interpreterete questo possibile (ma quanto probabile?) scenario in maniera differente. E non siete gli unici: dal presidente degli Stati Uniti veri, quelli d’America, alla Cina, dai paesi dell’est Europa al sud del mondo, il mondo intero guarda alla nostra Unione come ad un attore ancora più pericoloso, o importante, a seconda dell’interpretazione, se sviluppasse le sue potenzialità federali. Quanto questo progetto sia realizzabile, dipende in gran parte dalla classe politica nazionale di ciascun Paese. Perché occorre ricordarlo: dipingiamo l’Unione Europea come una creatura a sé stante, ma è fatta di stati, dei nostri stessi stati, proprio di quelli che si lamentano delle “sue” decisioni. L’Unione Europea siamo noi, che ci piaccia o no.
We had a dream
Sebbene non declinasse un preciso programma, nel suo discorso a Zurigo nel 1946 Churchill segnalava chiaramente l’obiettivo a cui aspirare: ricostruire la “famiglia dei popoli europei” che si era lacerata per ben due sanguinose volte nei pochi anni precedenti, dotandola di una “struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà”. Se all’idealismo aggiungiamo la strategia di Stati Uniti e Gran Bretagna, mirante ad evitare che il blocco europeo e in particolar modo il suo cuore tedesco potessero cadere in mano sovietica, ecco svelato il motivo di tanto slancio.
La geopolitica nasce proprio con l’idea dell’esistenza di un blocco centrale, ponte tra l’Europa e l’Asia, che ad oggi identifichiamo come la Germania e i paesi dell’est Europa. A seconda della nazionalità dello studioso, questa heartland (come la definisce Sir Halford Mackinder) venne temuta o anelata: mentre il teorico inglese, infatti, aveva paura di una possibile coniugazione tra lo zar e territori tedeschi, ovviamente dall’altra parte del Reno i sentimenti erano opposti, e i primi studiosi tedeschi di geopolitica aspiravano proprio a ricavarne un’invincibile potenza politica. È quindi lampante il motivo di tanta fretta dopo la guerra: se non ci arriviamo noi, sembrò pensare Churchill (e non solo), ci arriveranno i sovietici. A questa preoccupazione aggiungiamo che dall’altra parte del continente, come in una morsa, stava il Giappone, motivo per il quale gli Stati Uniti erano entrati nel conflitto mondiale e l’ultimo bastione nemico a cedere: era chiaro che il territorio aveva importanza vitale.
Se il dream anglo-americano era quello di portare sotto la loro ala protettrice un potenziale rischio alla loro sicurezza globale, di controllare i propri potenziali concorrenti, insomma di contenere una minaccia, i paesi europei sembravano pensarla in altra maniera. Oltre a vederci un chiaro stimolo alle proprie economie, distrutte dopo il conflitto, gli stati vedevano nell’integrazione un modo per affermarsi a livello globale al di fuori delle due superpotenze USA e URSS. Non è infatti un caso che fu uno dei più convinti nazionalisti francesi, il generale Charles de Gaulle, a sostenere il rafforzamento di un’ “Europa delle patrie”: e certamente non perché sostenesse la perdita di sovranità che un’unione inevitabilmente comporta, quanto piuttosto perché ne vedeva i vantaggi politici su scala mondiale.
“Chi fa da sé fa per tre” o “l’unione fa la forza”?
L’integrazione europea partì con una grande spinta. La cessione di sovranità avvenne nelle prime fasi infatti come un mezzo per valorizzare gli interessi nazionali dello stato membro, in un “gioco a somma positiva” utilizzando un’espressione tipica del mondo economico: le azioni intraprese insieme, questo era lo spirito, avrebbero portato ad un esito superiore rispetto a quelle fatte in solitaria. Sicuramente questo atteggiamento era dovuto al fatto che, ancora una volta economicamente parlando, l’integrazione economica dei paesi europei portò inevitabilmente a maggior benessere, favorendo ad esempio più elevati livelli di occupazione, produzione e scambio. Il risultato è inoltre da rapportare all’operato dell’altra parte, rappresentata dal Comecon, cioè dagli stati appartenenti al comunismo sovietico e dominati da Mosca: qui al contrario il gioco presentava un conto palesemente “negativo”. Secondo Giuseppe Di Taranto, professore emerito alla LUISS di Roma, a questo ottimismo contribuì il fatto che le economie dei paesi europei erano tutte tra loro complementari. Non c’è da stupirsi: dopotutto, copriamo una superficie di soli 4 milioni di chilometri quadrati. Siamo stati sempre uniti, e per “sempre” non occorre andare troppo indietro nel tempo. È quindi inevitabile che anche le nostre economie si siano sviluppate in modo da necessitarsi l’una con l’altra. Uno scenario idilliaco, ma molto effimero.
I problemi emersero una volta passati alla moneta unica. Paradossalmente, in seguito all’effettiva creazione dell’Unione con il trattato di Maastricht, il trend positivo che aveva caratterizzato i decenni precedenti si invertì, facendoci precipitare nell’atmosfera che ben conosciamo perché ancora ad oggi centro del dibattito politico: la “austerità” di cui tanto ci si lamenta è infatti frutto del Patto di stabilità stipulato all’ingresso degli stati nell’Unione. A questo si è aggiunto nel 2004 l’ampliamento ad est, un allargamento notevole per la velocità con cui è avvenuto, e che ha certamente modificato i deboli equilibri che si erano creati poco tempo prima. Insomma, se da una parte ne hanno segnato il vero e proprio inizio, gli anni ’90 del secolo scorso hanno contemporaneamente tracciato una linea di demarcazione piuttosto dura: da ora in poi si gioca tutti con le stesse regole. Poi nel 2016 è arrivata la Brexit.
Tra gli insegnamenti che l’UE può (e deve) trarre da questo episodio c’è sicuramente questo: che così non si può andare avanti. La direzione in cui procedere è diametralmente opposta a seconda dell’opinione del singolo: da chi vorrebbe meno integrazione a chi invece sogna, come forse Churchill, di chiamarci “stati federati” un giorno; da chi vorrebbe eleggere direttamente il (o la) presidente della Commissione a chi disconosce il suo ruolo e lo vorrebbe ridimensionare, la lista è lunga e varia. Comune a tutti è però la volontà di modificare il corso dell’Unione e quindi, come già ripetuto, il corso della storia di chiunque di noi.
Se i mezzi per indebolire l’Unione ci sono, e anzi abbondano, più complessa si fa invece la ricerca di un metodo per rafforzarla. Ci si è provato spesso nel passato: una delle strade più tentate è quella della collaborazione militare.
L’ennesimo gioco a somma positiva
Innanzitutto, perché è così importante cooperare nella difesa? Di certo al fine di costruire un’Unione politica più forte e strutturata. Essendo quello militare un campo primario per qualsiasi stato, per raggiungere l’obiettivo difensivo sarebbe necessario condividere obiettivi e risorse che oggi ciascun Paese riserva unicamente per sé. Paradossalmente, per costruire una barriera difensiva verso l’esterno bisognerebbe demolire quelle interne, un atto che molti governi oggi giudicano contrario agli interessi nazionali e che invece, se non altro in questo campo, produrrebbe molti più vantaggi che svantaggi. L’ennesimo “gioco a somma positiva” che conferma l’utilità pratica, prima ancora che la dimensione morale ed ideale, della collaborazione.
Come dicevamo, il cammino verso la dimensione militare dell’Unione potrebbe essere paragonato ad una corsa con numerosi ostacoli. Ci si provò con la cosiddetta Comunità Europea di Difesa nel 1952, idea affossata dall’Assemblea Nazionale francese, e da lì il ruolo di difensore dell’Europa venne designato alla NATO: ma con il crescente spostamento attuale ad est del baricentro geopolitico ed economico, anche la nostra Unione dovrebbe iniziare ad aggiornare il suo ruolo nel mondo. Un appoggio incontrastato dagli Stati Uniti di Trump è oggi più che mai volatile, ma anche all’interno dell’UE stessa i leader non sono coesi.
Il 2017 invece si è concluso con un passo avanti da parte di quasi tutti i membri. Nel dicembre di quell’anno i capi di stato e di governo di 25 stati europei hanno firmato l’accordo per la Cooperazione Strutturata Permanente, denominata PESCO. Gli stati firmatari hanno deciso di condividere valori e impegni vincolanti, come per esempio aumentare periodicamente i bilanci per la difesa, in modo da raggiungere gli obiettivi stabiliti congiuntamente, o aumentare la disponibilità e la interoperabilità delle forze armate nazionali. Inoltre, è in cantiere un comune programma industriale per la difesa, che necessiterebbe infine di uno strumento finanziario comune per coprirne le spese.
Indubbiamente l’agire insieme rappresenterebbe una risposta immediata a giganti come Stati Uniti e Cina, soprattutto riferendosi a quest’ultima nel campo del cyber, dove nuovi strumenti devono essere trovati per difendere le reti di comunicazione e i programmi statali. E infatti, come si può comprendere dall’alto numero di partecipanti (25 paesi su 27), il progetto ha riscosso interesse. Sarà per la generalizzata paura di restare schiacciati, tra un Oriente in espansione e un Occidente, al contrario, in ritirata? Un ulteriore lato positivo della PESCO sarebbe che a ricoprire il ruolo di segretario sarebbe l’EDA (Agenzia Europea della Difesa) congiuntamente con l’EEAS (Servizio Europeo per l’Azione Esterna). Se non ne avete mai sentito parlare, non vi preoccupate: proprio per questo, un ruolo più incisivo di quest’ultima (che è solamente un ufficio, neanche un’istituzione) permetterebbe all’intera UE di rafforzarsi anche sul piano estero.
Proprio l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione può rappresentare una spinta all’integrazione militare, che da sempre Londra aveva osteggiato. A partire dal 2016, scrivono Pecchi, Piga e Truppo nel loro libro Difendere l’Europa (2017), “si è rimosso un alibi dietro cui i paesi si nascondevano” e si potrebbe arrivare quindi ad un crocevia: riprendendo l’esempio dell’inizio, o si palesano brividi di gioia, o si ammettono quelli di paura. O vai o resti, ma se resti, dai il cento per cento.
L’Europa agli Europei
Comunque sia, concludono i tre esperti, “l’Europa non appartiene né agli economisti né tantomeno ai militari: l’Europa appartiene agli Europei”. Che una maggiore integrazione passi per la strada della difesa comune o per un’altra, alla fine il risultato dovrà comunque essere lo stesso: siamo tutti parte della stessa Unione. Condividiamo troppo passato e troppo presente per poterci tornare a scannare a vicenda mentre nel mondo succedono cose ben più gravi e grandi. L’integrazione non è un gioco a somma zero, dove se vinco io perdi tu, ma un gioco a somma altamente positiva, dove si vince insieme, dove si guadagna solo se si resta uniti. Ce l’hanno dimostrato i nostri nonni, partiti dalle macerie della guerra e arrivati ad essere la prima generazione che starà meglio di quella dei loro nipoti.